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Scritto da Vinicia Tesconi
Parliamone
19 Ottobre 2025

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L’ultimo corso della storia d’Italia sembra volersi distinguere come quello in cui il costume genetico italiano del “fate come vi dico, non fate come faccio” raggiungerà la sua apoteosi. Va bene, è innegabile: non abbiamo mai brillato per coerenza. Per restare solo al secolo scorso, nei più grandi e tragici eventi a livello mondiale, abbiamo dato sempre prova di dire una cosa e farne un’altra, se pur le scelte ‘incoerenti’, in molti casi, siano state le più onorevoli. Ma di esempi di parole che non avevano conseguenze nei fatti ne è intrisa la storia della penisola dai Romani a oggi, quindi predicare la coerenza, in questo paese, suona sempre un po’ come la mamma che chatta sul cellulare che dice al figlio: “Smetti di giocare col telefono”. Tuttavia, se non proprio l’onore, un fondo innegabile e sano di orgoglio solo italiano, fino anche a un passato relativamente recente ci ha visti protagonisti di meravigliosi riscatti: il coraggio dei soldati della Prima guerra mondiale, quello dei Partigiani nella Resistenza, quello del Generale Dalla Chiesa e dei giudici Falcone e Borsellino, quello dei militari italiani impegnati nelle missioni di pace nelle guerre che hanno infiammato il mondo dalla seconda metà del ‘900. Basterebbero solo questi esempi, ma sono assai di più, a bypassare la nostra naturale tendenza ad amare i pulpiti da cui predicare per poi scendere da essi e fare l’esatto contrario di quanto appena detto. Ma oggi, appunto, quel fondo di orgoglio e dignità, per dirla con Battisti (Lucio, ovviamente e non Cesare, martire nel 1916 per essersi rifiutato di rinnegare l’Italia, lui che ufficialmente era nato nel Trentino dominato dagli austriaci,  raro esempio di incredibile coerenza, forse per questo abbondantemente dimenticato), sembra essersi esaurito ed è rimasta solo una becera e violenta incoerenza.

 

L’attentato contro il giornalista di Report Sigfrido Ranucci, che ha quasi rischiato di costare la vita a sua figlia, è un atto oggettivamente indegno che deve essere solo condannato da tutti. La solidarietà al giornalista, peraltro tra i pochissimi in Italia che fa vero giornalismo d’inchiesta (e non inchieste a favore di audience come fanno troppe trasmissioni non giornalistiche che imperversano da anni), deve essere trasversale e condivisa da tutti senza distinguo. E soprattutto senza cercare di usarla – in maniera ridicola visto che le indagini sono appena iniziate e non c’è alcuna rivendicazione possibile a cui attribuirne la responsabilità – per fare qualunque tipo di propaganda politica. E invece no: il gioco ad accusare  a prescindere una parte politica, lacerandosi le vesti per un’immaginaria mancanza di libertà di stampa, libertà di espressione, libertà di associazione, libertà di idee è già partito. È vero: i social hanno reso tutto drammaticamente più amplificato e quindi più grave. Trent’anni fa i social non c’erano, ma la dignità e l’orgoglio dovrebbero essere valori capaci di resistere lo stesso. Invece non lo sono. E allora, da mesi, alla luce delle sempre più angoscianti manifestazioni di violenza incontrollata e priva di motivi (addirittura corollario immancabile delle cosiddette manifestazioni di pace – tanto per restare coerenti) tutti salgono sui pulpiti mediatici per predicare  di abbassare i toni, di privilegiare il confronto (che è sempre sano) e non lo scontro (che è sempre deleterio) e poi scendono sulle cloache social e istigano tutti i beoti affamati di spranghe a prendersela con i bersagli politici che loro gli indicano.

 

Il caso dell’attentato di Ranucci è emblematico. Ranucci ha preso 178 querele da quando presenta Report, la redazione del programma ne ha prese anche di più. E le querele non vengono solo da una parte politica, ma da tutte. Di gente a cui Ranucci sta molto sulle scatole ce n’è a bizzeffe, come è normale che sia, quando si sceglie di fare quel mestiere in quella modalità. Peraltro il detto giornalistico dice: “Tante querele, tanto onore”. Il fatto che tante persone lo abbiamo querelato o ne abbiano criticato i modi e le scelte non deve tuttavia significare che possano essere responsabili del tentato omicidio nei suoi confronti. Perché è vero che la stampa libera è un segno importante di democrazia, ma lo è altrettanto la possibilità di difendersi legalmente da un attacco mediatico citando in tribunale l’autore della presunta diffamazione. Fermarsi solo alla prima affermazione vorrebbe dire che tutto ciò che viene pubblicato è sacrosanto, innegabile, incontestabile e che quindi tutte le campagne denigratorie ad personam e tutte le sentenze sommarie fatte prima dei processi, misure tipiche della stampa italiana, abbiano valore di legge. E per fortuna non è così.  La solidarietà a Ranucci per il vergognoso attentato subito è arrivata da quasi tutti anche da quelli che non hanno esitato in passato a criticare fortemente l’operato del giornalista. Perché avere idee politiche diverse non è mai una ragione perché sia giusto ammazzare qualcuno. E invece, una parte politica – la solita-  che ormai ha fatto della strumentalizzazione di ogni cosa l’unico passo riconosciuto per mantenere la presa sugli elettori ha già cominciato a sentenziare non solo l’accertata mancanza di libertà di stampa in Italia, ma anche la chiara responsabilità dell’attentato nei rappresentanti della parte politica opposta. Esattamente dieci minuti dopo aver detto che bisogna abbassare i toni e cercare sempre il confronto. La strumentalizzazione è sempre un atto di violenza, ancor di più lo è in un mondo in cui l’informazione più diffusa è fatta solo di titoli e slogan, senza alcuna volontà di approfondimento, in cui l’ignoranza e la maleducazione superano di gran lunga il buon senso, in cui l’incapacità di moderare la rabbia si risolve sempre con la ricerca di ogni pretesto per scatenare la violenza. Il brutto costume italiano di predicare bene e razzolare male è diventato un’arma sempre più potente. E quasi nessuno si è accorto che è un boomerang.

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